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IPOTESI
COLORATE |
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Il
carnevale è arrivato. In molti paesi
si insceneranno danze, canti, rappresentazioni
in cui rinverdiscono ogni anno le radici della
nostra società contadina.
Certo di feste ce ne sono tante sul calendario:
ogni comunità ha un santo a cui votare
la propria devozione, una Madonna da far sfilare
sotto le finestre, un canto da intonare, un
personaggio da non dimenticare.
Ma il carnevale è diverso. La farsa non
solo si serve di parole e canti, la farsa traveste.
Gli abiti, i loro colori, cominciano a parlarci
di un mondo lontano, a volte sconosciuto, a
renderci visibile, quasi tangibile, una realtà
oramai trascorsa.
Un vestito non è solo bello o brutto.
Un vestito serve a qualcosa.
Per coprirsi, per lavorare, per onorare una
festa, per sposarsi.
C’è dunque una motivazione. Per
questo nella storia dei costumi, in realtà
si può celare la storia di una società.
Della povertà o della ricchezza diffuse
in un determinato periodo, del dolore e della
felicità legati a determinate occasioni.
Le avete presenti le “pacchiane”? |
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In
ogni mascherata, anche nelle più recenti
ed innovative, non sono mai mancate.
Quelli indossati da loro, sono gli abiti della
tradizione, quegli abiti che distinguevano,
attraverso la loro particolare foggia, l’appartenenza
ad un determinato paese.
E’ stata grande la mia delusione quando,
cercando fonti sul costume tipico ripese, non
ho trovato alcuna notizia certa, ma soprattutto
precisa dal punto di vista descrittivo.
Nessuna immagine ufficiale, nessuna voce.
Ma da quel poco che ho trovato mi piacerebbe
immaginare, e soprattutto stimolare chi ha dei
ricordi, delle testimonianze…..
Non dimentichiamo che le civiltà contadine
si caratterizzano per la tradizione orale e
che è bello ogni tanto dare ai ricordi
un valore concreto, o meglio il giusto peso
che meritano.
Qualche breve cenno lo abbiamo nell’indagine
murattiana del 1811, un vero e proprio quadro
statistico che accertasse le condizioni essenziali
del vivere quotidiano, in cui le “vestimenta”erano
non un indice estetico, ma prodotto delle condizioni
economiche ed igienico-sanitarie.
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Così vi è scritto:
“Comune di Ripalimosani: I contadini
di ambi i sessi in tutte le stagioni vestono
di panno di lana tessuto ne’ propri
telai e fatto colle lane delle proprie pecore.
Porzione di esso si tinge dalle donne del
paese con erbe e robbia, e l’altra si
manda alla tintera…………………Nel
lavare la biancheria generalmente fanno uso
del sapone, e si rimarca del lusso, massime
nel ceto delle donne. Vera sudicezza ne’
miserabili non se ne osserva. Pubblici stabilimenti
da vestire li poveri mancano.” (1)
Povertà dunque, ma anche tanta dignità,
e pulizia.
Questi erano però gli abiti dei “tempi
normali” o “profani”, da
contrapporre a quelli di “rappresentanza”
o dei “tempi cerimoniali”.
Da alcune testimonianze orali ed atti dotali,
afferma la studiosa Ada Trombetta, si capisce
che gli abiti quotidiani erano simili a quelli
delle feste, seppure privi di guarnizioni
ed ori. (2)
Ma come poteva essere l’abito ripese
tipico?
Sempre nella citata inchiesta murattiana,
Ripalimosani è compreso nel “circondario
di Montagano”.
La mia ipotesi è che in questo circondario
la foggia degli indumenti fosse simile.
Del resto nell’analisi dei dati relativi
a Montagano, viene scritto:”La foggia
di vestire nella classe dei contadini dell’uno
e dell’altro sesso è simile a
quella di Ripalimosani”.
Non ci sono delle peculiarità descritte
per l’abito di Montagano, e non se ne
notano neanche nella collezione del Mainardi
custodita al museo M.N.A.T.P. di Roma. (3)
Tuttavia ci sono delle notizie precise per
quanto riguarda il costume tipico di Sant’Angelo
Limosano, paese che viene ricompreso dall’inchiesta,
nel circondario di Montagano.
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Ci
sono delle riproduzioni settecentesche, degli
acquerelli nelle cui didascalie troviamo delle
descrizioni ben precise.
Il turchese del panno che le donne mettevano
in testa, l’azzurro del bustino, il berretto
rosso per gli uomini tuttavia sembrano delle
caratteristiche troppo peculiari per poter generalizzare.
Ma bando alle “ipotesi investigative”,
possiamo parlare di qualcosa di più concreto:
i colori.
L’unico dato oggettivo che ho potuto dedurre
è che a Ripalimosani, paese che spesso
viene ricordato per l’arte dei funai,
vi erano delle tintorie pubbliche in cui venivano
mandati a tingere i capi di vestiario di molti
paesi del Molise.
“Tanto le biancherie, quanto i panni di
lana, vengono fabbricati ne’ rispettivi
paesi e quest’ultimi si tingono da essi
alla meglio con scorze d’alberi ed erbe
conosciute, oppure si fanno tingere in Riccia,
Ripalimosani, Sepino, Campobasso e altrove”.
(4)
Ma veniamo ai colori, al loro valore allegorico
che tanto è consono a questo periodo
del carnevale, e che non fu estraneo ai contadini.
L’uso completo della gamma cromatica è
sicuramente conseguenziale alla possibilità
di reperire le materie coloranti, ma in genere
fin dai tempi più antichi, il nero fu
associato al dolore, e allo stato vedovile,
il rosso alla vitalità nell’amore
e nella vita in generale.
Quando la tintura non veniva effettuata nelle
pubbliche tintorie, questa veniva effettuata
a casa non solo eseguendo le fasi necessarie
alla buona riuscita dell’operazione, ma
eseguendo dei riti propiziatori. |
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A Castropignano
si diceva :”Mitt robba e tigne de notte”,
ossia metti il colorante e tingi di notte, momento
in cui sicuramente si sfugge agli sguardi degli
invidiosi.
Le materie coloranti che erano tutte vegetali,
venivano prima essiccate e poi una volta polverizzate
dissolte nell’acqua calda. Si aggiungeva
come fissativi del colore un po’ d’aceto
vino e sale.
Per provarne l’intensità si immergeva
un batuffolo di lana pulito.
Per quanto riguarda il reperimento delle materie
coloranti, non si può rimanere indifferenti
di fronte all’inventiva dei nostri antenati. |
IL NERO: La fuliggine,
felima, veniva ricavata grattandola dai camini
e dai paioli, che si dice producessero un
nero più carico, poi veniva setacciata
e quindi fatta bollire per mezz’ora.
In un secondo momento veniva fatto bollire
assieme al colorante l’indumento da
tingere.
Il nero poteva essere ricavato anche da una
particolare escrescenza della quercia.
IL GRIGIO: veniva ricavato
dal mallo delle noci fresche, o anche dalla
stessa escrescenza della quercia di cui sopra.
IL ROSSO: si ricavava
dalla robbia, pianta tipicamente mediterranea
e molto diffusa nel territorio molisano, oppure
dalle barbabietole rosse e dal verzino, una
leguminosa che produce un legno dello stesso
colore.
IL MARRONE: quando non
si otteneva dallo stesso vello delle pecore,
si ricorreva ad una quantità ridotta
di fuliggine.
L’AZZURRO: una
tonalità più scura la si otteneva
dall’indaco, una pianta leguminosa,
la tonalità tendente al celeste dalla
foglia dell’erba gualda (abbondante
in Puglia).
Il GIALLO: dall’erba
gualda, dal chinino, da un arbusto detto scotano,
o più semplicemente dallo zafferano.
IL VERDE: si otteneva
attraverso due fasi di colorazione, ossia
tingendo l’indumento prima di giallo
e poi facendolo bollire con crusca acqua e
sale.
Paola Di Toro
Note:
(1) Alberto M. Cirese: Intellettuali e mondo
popolare nel Molise. pag. 99
(2) Ada Trombetta: Mondo d’altri tempi.
I costumi del Molise.
(3) cit. in Ada Trombetta.
(4) Pietro Vasilotta cit. in Ada Trombetta
pag. 204
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