Comune di Ripalimosani (CB)
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 Giovedì 21 Novembre 2024

  
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Il carnevale è arrivato. In molti paesi si insceneranno danze, canti, rappresentazioni in cui rinverdiscono ogni anno le radici della nostra società contadina.
Certo di feste ce ne sono tante sul calendario: ogni comunità ha un santo a cui votare la propria devozione, una Madonna da far sfilare sotto le finestre, un canto da intonare, un personaggio da non dimenticare.
Ma il carnevale è diverso. La farsa non solo si serve di parole e canti, la farsa traveste.
Gli abiti, i loro colori, cominciano a parlarci di un mondo lontano, a volte sconosciuto, a renderci visibile, quasi tangibile, una realtà oramai trascorsa.
Un vestito non è solo bello o brutto. Un vestito serve a qualcosa.
Per coprirsi, per lavorare, per onorare una festa, per sposarsi.
C’è dunque una motivazione. Per questo nella storia dei costumi, in realtà si può celare la storia di una società. Della povertà o della ricchezza diffuse in un determinato periodo, del dolore e della felicità legati a determinate occasioni.
Le avete presenti le “pacchiane”?

In ogni mascherata, anche nelle più recenti ed innovative, non sono mai mancate.
Quelli indossati da loro, sono gli abiti della tradizione, quegli abiti che distinguevano, attraverso la loro particolare foggia, l’appartenenza ad un determinato paese.
E’ stata grande la mia delusione quando, cercando fonti sul costume tipico ripese, non ho trovato alcuna notizia certa, ma soprattutto precisa dal punto di vista descrittivo.
Nessuna immagine ufficiale, nessuna voce.
Ma da quel poco che ho trovato mi piacerebbe immaginare, e soprattutto stimolare chi ha dei ricordi, delle testimonianze…..
Non dimentichiamo che le civiltà contadine si caratterizzano per la tradizione orale e che è bello ogni tanto dare ai ricordi un valore concreto, o meglio il giusto peso che meritano.
Qualche breve cenno lo abbiamo nell’indagine murattiana del 1811, un vero e proprio quadro statistico che accertasse le condizioni essenziali del vivere quotidiano, in cui le “vestimenta”erano non un indice estetico, ma prodotto delle condizioni economiche ed igienico-sanitarie.

Così vi è scritto:
“Comune di Ripalimosani: I contadini di ambi i sessi in tutte le stagioni vestono di panno di lana tessuto ne’ propri telai e fatto colle lane delle proprie pecore.
Porzione di esso si tinge dalle donne del paese con erbe e robbia, e l’altra si manda alla tintera…………………Nel lavare la biancheria generalmente fanno uso del sapone, e si rimarca del lusso, massime nel ceto delle donne. Vera sudicezza ne’ miserabili non se ne osserva. Pubblici stabilimenti da vestire li poveri mancano.” (1)
Povertà dunque, ma anche tanta dignità, e pulizia.
Questi erano però gli abiti dei “tempi normali” o “profani”, da contrapporre a quelli di “rappresentanza” o dei “tempi cerimoniali”.
Da alcune testimonianze orali ed atti dotali, afferma la studiosa Ada Trombetta, si capisce che gli abiti quotidiani erano simili a quelli delle feste, seppure privi di guarnizioni ed ori. (2)
Ma come poteva essere l’abito ripese tipico?
Sempre nella citata inchiesta murattiana, Ripalimosani è compreso nel “circondario di Montagano”.
La mia ipotesi è che in questo circondario la foggia degli indumenti fosse simile.
Del resto nell’analisi dei dati relativi a Montagano, viene scritto:”La foggia di vestire nella classe dei contadini dell’uno e dell’altro sesso è simile a quella di Ripalimosani”.
Non ci sono delle peculiarità descritte per l’abito di Montagano, e non se ne notano neanche nella collezione del Mainardi custodita al museo M.N.A.T.P. di Roma. (3)
Tuttavia ci sono delle notizie precise per quanto riguarda il costume tipico di Sant’Angelo Limosano, paese che viene ricompreso dall’inchiesta, nel circondario di Montagano.


Ci sono delle riproduzioni settecentesche, degli acquerelli nelle cui didascalie troviamo delle descrizioni ben precise.
Il turchese del panno che le donne mettevano in testa, l’azzurro del bustino, il berretto rosso per gli uomini tuttavia sembrano delle caratteristiche troppo peculiari per poter generalizzare.
Ma bando alle “ipotesi investigative”, possiamo parlare di qualcosa di più concreto: i colori.
L’unico dato oggettivo che ho potuto dedurre è che a Ripalimosani, paese che spesso viene ricordato per l’arte dei funai, vi erano delle tintorie pubbliche in cui venivano mandati a tingere i capi di vestiario di molti paesi del Molise.
“Tanto le biancherie, quanto i panni di lana, vengono fabbricati ne’ rispettivi paesi e quest’ultimi si tingono da essi alla meglio con scorze d’alberi ed erbe conosciute, oppure si fanno tingere in Riccia, Ripalimosani, Sepino, Campobasso e altrove”. (4)
Ma veniamo ai colori, al loro valore allegorico che tanto è consono a questo periodo del carnevale, e che non fu estraneo ai contadini.
L’uso completo della gamma cromatica è sicuramente conseguenziale alla possibilità di reperire le materie coloranti, ma in genere fin dai tempi più antichi, il nero fu associato al dolore, e allo stato vedovile, il rosso alla vitalità nell’amore e nella vita in generale.
Quando la tintura non veniva effettuata nelle pubbliche tintorie, questa veniva effettuata a casa non solo eseguendo le fasi necessarie alla buona riuscita dell’operazione, ma eseguendo dei riti propiziatori.
A Castropignano si diceva :”Mitt robba e tigne de notte”, ossia metti il colorante e tingi di notte, momento in cui sicuramente si sfugge agli sguardi degli invidiosi.
Le materie coloranti che erano tutte vegetali, venivano prima essiccate e poi una volta polverizzate dissolte nell’acqua calda. Si aggiungeva come fissativi del colore un po’ d’aceto vino e sale.
Per provarne l’intensità si immergeva un batuffolo di lana pulito.
Per quanto riguarda il reperimento delle materie coloranti, non si può rimanere indifferenti di fronte all’inventiva dei nostri antenati.

IL NERO: La fuliggine, felima, veniva ricavata grattandola dai camini e dai paioli, che si dice producessero un nero più carico, poi veniva setacciata e quindi fatta bollire per mezz’ora. In un secondo momento veniva fatto bollire assieme al colorante l’indumento da tingere.
Il nero poteva essere ricavato anche da una particolare escrescenza della quercia.

IL GRIGIO: veniva ricavato dal mallo delle noci fresche, o anche dalla stessa escrescenza della quercia di cui sopra.
IL ROSSO: si ricavava dalla robbia, pianta tipicamente mediterranea e molto diffusa nel territorio molisano, oppure dalle barbabietole rosse e dal verzino, una leguminosa che produce un legno dello stesso colore.
IL MARRONE: quando non si otteneva dallo stesso vello delle pecore, si ricorreva ad una quantità ridotta di fuliggine.
L’AZZURRO: una tonalità più scura la si otteneva dall’indaco, una pianta leguminosa, la tonalità tendente al celeste dalla foglia dell’erba gualda (abbondante in Puglia).
Il GIALLO: dall’erba gualda, dal chinino, da un arbusto detto scotano, o più semplicemente dallo zafferano.
IL VERDE: si otteneva attraverso due fasi di colorazione, ossia tingendo l’indumento prima di giallo e poi facendolo bollire con crusca acqua e sale.

Paola Di Toro


Note:
(1) Alberto M. Cirese: Intellettuali e mondo popolare nel Molise. pag. 99
(2) Ada Trombetta: Mondo d’altri tempi. I costumi del Molise.
(3) cit. in Ada Trombetta.
(4) Pietro Vasilotta cit. in Ada Trombetta pag. 204